un po’ di tempo fa stavo uscendo tutta trafelata da casa perché avevo appuntamento con l’architetto, per definire alcuni dettagli di quella casa che chiamavo nuova e che sarà spero il mio per sempre. proprio quel per sempre che mi ha sempre terrorizzata e che ho rifuggito con tutte le mie forze. quel per sempre che è arrivato, mi ha presa e mi ha portata via e mi toccherà ormai ammettere che non è poi così male.
quando si va di fretta ovviamente le cose non vanno mai come dovrebbero, quindi chiudendo il portone le chiavi non entravano nella toppa, poi non giravano, poi era la chiave sbagliata e poi avevo dimenticato qualcosa – qualsiasi cosa – dentro casa.
in mezzo a tutto quel trambusto è uscita la mia ex dirimpettaia sul pianerottolo, una simpatica signorinella di una novantina d’anni che insieme a un bel sorrisone ha cominciato ad attaccare bottone chiedendomi del trasloco, dei gatti e della nuova casa.
“sta correndo al lavoro eh? la lascio andare”
“ahem, già. arrivederci, buona giornata!”
in un’altra occasione stavo chiacchierando con l’agente immobiliare che aveva in carico di affittare la vecchia casa su come sia difficile trovare dei buoni inquilini al giorno d’oggi, su come il tempo si stesse comportando in modo strano e del fatto che ero stata proprio brava ad arredarla quella casa che nel giro di pochissime ore non ha avuto più nulla di mio.
“non credevo di trovarla a quest’ora, pensavo fosse in ufficio, ah che gran cosa poter lavorare da casa!”
“ahem, già.”
potrei elencare moltissimi episodi simili a questi capitati negli otto mesi che ho vissuto da disoccupata.
come quella volta in cui io e lui stavamo cominciando la trafila di documenti per il matrimonio e il sacerdote mi ha chiesto quale fosse la mia professione. sono rimasta muta per dei secondi infiniti, incapace di riuscire a dare una risposta, incapace di aprire le labbra e sussurrare la realtà.
e quanta vergogna poi quando davanti a tutte le persone più care di una vita intera, alla lettura dei registri sull’altare per ufficializzare il matrimonio prima delle firme il prete ha ripetuto ad alta voce il mio nome, il mio cognome e poi “disoccupata, nata a milano…”.
come in tutte le cose brutte, pensi sempre che non possano succedere a te. non so perché il cervello umano venga tratto così in inganno da un concetto così errato. se capita qualcosa agli altri, potrebbe capitare anche a te. e invece ci si ritiene quasi sempre superiori alle sfighe delle altre persone, come se si vivesse su una nuvoletta nel cielo blu – intoccabili – mentre gli altri sulla terra ferma fanno a botte per conquistarsi la vita.
quando mi sono ritrovata senza un lavoro è stato come spesso accade un fulmine a ciel sereno, uno schiaffo in pieno volto, il panico sordo e cieco di quando ti manca la terra sotto ai piedi e il vuoto dura chilometri. un po’ come la famosa caduta di alice nel paese delle meraviglie. senza gonna azzurra e bianca a mò di paracadute, senza bianconiglio e purtroppo anche senza serrature parlanti.
mi sono ritrovata davanti a un bivio. avrei potuto farmi accecare da tutta la rabbia che avevo in corpo e covare vendetta o lanciare maledizioni nei confronti delle persone che ritenevo responsabili della mia situazione. avrei potuto altrimenti chiudermi in un guscio invisibile di lacrime, nullafacenza, disperazione e depressione – probabilmente senza volerlo, che nessuno lo vuole, ma a volte ci si scivola dentro come la pioggia sugli impermeabili.
invece mi sono fermata, mi sono guardata intorno e seduta ad un tavolo ho fatto la lista di tutte le motivazioni per cui mi sarei dovuta ritenere fortunata anche se non avevo più un lavoro. e mi sono presa in giro da sola.
“sei triste? ah davvero? hai la salute, la famiglia, l’amore, gli amici. e sei triste? sei cretina, altro che triste.”
e se non avevo scelto di perdere il mio lavoro, ho fatto però un’altra scelta: essere felice a prescindere.
scelta tanto importante quanto difficile. è un po’ come smettere di fumare, mettersi a dieta o decidere di cominciare ad andare in palestra. ci vuole pazienza perché i risultati non arrivano mai subito, costanza perché se no non arriveranno mai e perseveranza per non mollare davanti alle prime difficoltà. le ricadute sono state moltissime: come quella volta che avrei voluto una hammer al posto della 500 per poter asfaltare il tamarro che andava a zig zag in mezzo alla circonvallazione perché era al telefono, probabilmente con la sua ragazza biondo platino con le fornarina (ah no, scusate, quelli erano gli anni novanta). oppure quella volta che l’ennesima persona mi è passata davanti al supermercato facendo la fila per comprare i benedetti due etti di prosciutto cotto che ti salvano la cena. o ancora quella volta che piangendo disperata spiegavo a lui che la mia vita era uno schifo, che era tutto da buttare, me misera me tapina e invece era solo la sindrome premestruale.
sono passata nel giro di qualche mese da persona incazzata con un lavoro a persona felice senza lavoro.
quindi si, oggi posso dire con certezza che essere felici può essere una questione di scelte.
vanno fatte un passo fuori dal ciclone, con lucidità e credendoci come un cattolico crede alla resurrezione ma si possono fare.
e quindi si, se doveste incontrarmi per la strada io sono quella che quando era disoccupata andava in giro per il mondo a sorridere. senza vergogna.
a quanto pare si può.
Ciao! Sono approdata casualmente sul tuo blog digitando le paroline “disoccupazione+vergogna”. Sì, perché è proprio la situazione che sto vivendo in questo momento…anzi, a dire il vero, è la mia condizione da più di 3 anni, ovvero da quando mi sono laureata. E sai qual è la cosa peggiore? Che in realtà non posso permettermi neanche il lusso di definirmi “disoccupata”. Un disoccupato è pur sempre uno che qualche opportunità l’ha avuta nella vita, un inoccupato invece è un invisibile, un fantasma, uno che non è mai stato scelto da nessun datore di lavoro e che non ha mai visto un contratto in vita sua, non sa nemmeno come sia fatto. È uno che quando invia un cv sa che al 99% non riceverà alcuna risposta, o, se ne riceverà una, sarà negativa. Ecco, io appartengo a quest’ultima categoria. Non che non abbia mai lavorato in senso assoluto, eh. Ho ben 5 stage sul cv, un record. Per non parlare dei lavori in nero che ho fatto per anni: cameriera, barista e anche impiegata in un’industria meccanica. Mi ha fatto amaramente sorridere l’aneddoto del prete durante la cerimonia perché è la stessa cosa che ho vissuto io. Nel mio caso però ci sono state pure le frecciatine dei cognati col posto fisso, per i quali “uno che vuole veramente lavorare, qualcosa trova”. Certo, potrei lavare le scale a casa loro, tipo. La mia ” fortuna” è quella di vivere con mio marito a più di 200km di distanza da loro, sennò sai che palle. Mio marito non mi fa mancare niente, e di questo dovrei imparare ad essere contenta anche se per ora non lo sono affatto. A 30 anni faccio la casalinga disperata e nel frattempo faccio corsi (inutili) di formazione e studio per qualche concorso ma, ahimè, senza troppa convinzione. Girerà mai questa ruota?